Le ricerche storiche ed archeologiche attestano che le popolazioni dell’antichità, un po’ ovunque, si preoccuparono di creare un sistema fognario in modo tale da trasportare i reflui cittadini oltre le porte delle città; ne troviamo traccia già dal IV/III millennio a.C. nella bassa Mesopotamia e nell’Assiria, nei palazzi micenei e cretesi, a Gezer in Palestina, ad Atene ed altre città elleniche.
Comunque sia, la civiltà dei Romani fu quella che più di tutti diede una spinta notevole nella costruzione per le proprie città di un’articolata rete di canali per la raccolta delle acque di scarico.
A questo scopo è significativo citare la testimonianza di Strabone (Amasea, Ponto, prima del 60 a.C.-forse ivi 20 d.C. ca.), noto storico e geografo greco, che lodò nella sua opera Geografia (Γεωγραϕικά o ῾Υπομνήματα τῆς γεωγραϕίας) le opere architettoniche dei Romani, i quali
“si impegnavano nella costruzione di strade, acquedotti e fognature che riversavano nel Tevere la sporcizia dell’Urbe”
Ed in particolar modo
“… le fognature, voltate con filari di pietre, sono in alcuni punti talmente ampie da permettere il transito di grandi carri carichi di fieno” (Libro V 3, 8).
Dunque con Strabone, in questo passo contenuto nel monumentale resoconto composto da 17 libri, viene messo per inciso nota la proattività dell’Antica Roma a costruire e progettare sistemi di adduzione e distribuzione delle acque pulite, ma era altrettanto efficiente nella creazione di sistemi di scarico delle acque reflue, nonché della famosa rete stradale.
Quello che ad oggi potremmo definire un “sistema di gestione delle acque integrato” era un punto di forza notevole che veniva preso a modello e replicato in altre parti dei territori sottoposti alla giurisdizione dell’Urbe, sia in fase di fondazione sia in fase di espansione.
Pertanto non venivano costruiti solo acquedotti per acqua pulita, ma messe in atto anche importanti metodologie di gestione delle fognature, per raggiungere gli obbiettivi di salubritas pubblica.
Fin dall’epoca repubblicana furono perciò stanziati cospicui investimenti in tal senso, e messe in atto peculiari strategie di lavaggio delle strade (tramite lo stramazzo dei castelli di distribuzione) e di convogliamento delle acque verso le cloache ai fini di pulizia delle latrine pubbliche.
Nonostante questo, la letteratura antica giunta a noi ci fornisce poche fonti di riflessione sulle opere destinate allo smaltimento dei rifiuti e sulla gestione delle acque reflue, indirizzate principalmente verso la descrizione e l’elogio della Cloaca Maxima, come avvenuto sopra.
La Cloaca Maxima
La “fogna più grande” è uno dei più conosciuti sistemi di tunnel sotterranei, su vasta scala, dell’antichità ed originariamente era destinata al trasporto delle acque alluvionali ed a scopi di bonifica, ovvero per il drenaggio delle paludi.
È un complesso sistema canalizzato che prendeva origine dal quartiere della Suburra, attraversava l’Argileto e altri luoghi fondamentali nella vita pubblica di Roma come il Foro, il Velabro ed anche il Foro Boario, gettandosi dopo circa 600 metri nel Tevere a valle del Ponte Emilio.
Notevole è la struttura terminale ad arco, preso nei secoli successivi come esempio ingegneristico e rappresentato da alcuni quadri.
Christoffer Wilhelm Eckersberg (1814), Veduta della Cloaca Maxima. Olio su tela
Dionigi di Alicarnasso (pressi di Alicarnasso, 60 a.C. circa – dopo il 7 a.C.),nelle sue Antichità Romane (Ῥωμαϊκὴ Ἀρχαιολογία, in latino Antiquitates Romanae) si allinea a Strabone, celebrando così questa grandiosa – per l’epoca – opera ingegneristica ed attribuendola al re etrusco Tarquinio Prisco. Diamo la parola allo storico e retore greco:
“Tarquinio cominciò anche a far scavare fognature, con le quali le acque che scorrevano per le strade potessero essere convogliate verso il Tevere; opera meravigliosa tale da superare ogni descrizione. In verità, secondo la mia opinione le tre opere più grandiose a Roma, che testimoniano la sua grandezza, sono gli acquedotti, le strade lastricate e la costruzione di fognature … Gaius Acilius (3) affermava che un tempo, quando le fognature erano state trascurate, i censori autorizzarono la loro pulizia e riparazione con una spesa di migliaia di talenti”.
L’origine etrusca, in cui è ricompresa anche i provvedimenti di Tarquinio il Superbo, è testimoniata pure da altre fonti come Plinio il Vecchio, Tito Livio e Cassio Dione.
Tito Livio (Patavium – Padova 59 a. C. – ivi 17 d. C.) infatti descrive così negli Ab Urbe condita libri CXLII,
“minus tamen plebs gravabatur se templa deum exaedificare manibus suis quam postquam et ad alia, ut specie minora, sic laboris aliquanto maioris traducebantur opera, foros in circo faciendos cloacamque maximam, receptaculum omnium purgamentorum urbis, sub terra agendam”
“Tuttavia, ai plebei pesava meno dover costruire i templi degli dei con le proprie mani che essere impiegati, come poi in seguito successe, in lavori meno spettacolari ma molto più sfibranti, come la costruzione dei sedili del Circo o quella, da realizzarsi sotto terra, della Cloaca Massima, ricettacolo di tutto il liquame della città, opere queste al cui confronto la grandiosità dei giorni nostri ha ben poco da contrapporre.” (Liv. 1.56.1-2)
Ed inoltre Plinio il Vecchio nelle Naturalis Historiae:
“Permeant conrivati septem amnes cursuque praecipiti torrentium modo rapere atque auferre omnia coacti, insuper imbrium mole concitati vada ac latera quatiunt, aliquando Tiberis retro infusus recipitur pugnantque diuersi aquarum impetus intus, et tamen obnixa firmitas resistit. Trahuntur moles superne tantae non succubentibus cavis operis, pulsant ruinae sponte praecipites aut inpactae incendiis, quatitur solum terrae motibus, durant tamen a Tarquinio annis DCC prope inexpugnabiles, non omittendo memorabili exemplo vel magis, quoniam celeberrimis rerum conditoribus omissum est. Cum id opus Tarquinius Priscus plebis manibus faceret, essetque labor incertum maior an longior, …”
“Sette fiumi convogliati scorrono e precipitosi nel corso al modo dei torrenti spinti a trascinare e portar via ogni cosa, premuti sopra dalla massa delle piogge squassano i guadi e le pareti, talvolta il Tevere insinuatosi dietro si riversa, e le diverse correnti delle acqua combattono all’interno, e tuttavia la decisa solidità resiste. sopra sono trascinati massi tanto grandi pur non cedendo le gallerie dell’opera, premono le frane che cadono spontaneamente o intaccate dagli incendi, il suolo della terra è squassato dai terremoti, tuttavia resistono da Tarquinio Prisco inespugnabili da quasi 700 anni, da non tralasciare un memorabile esempio ancor più, perché fu trascurato dai più famosi storici. Quando Tarquinio Prisco faceva quest’opera con le braccia della plebe, ed era incerto se il lavoro fosse più pesante o più lungo, … “
In linea generale, queste testimonianze sono corroborate da approfondite indagini archeologiche, le quali attestano e confermano che una rete fognaria era operativa in un periodo ricompreso fra il V ed il IV secolo a.C. .
Effettivamente in un altro passo Livio cita la presenza di un fitto agglomerato di canali per gli scarichi. L’occasione era relativa all’esigenza di ricostruire in tempi rapidi gli edifici dell’Urbe, distrutti dal famigerato sacco gallico del 18 luglio 390 a.C.
La riedificazione di Roma doveva perciò procedere sfruttando qualsiasi spazio vuoto disponibile, trascurando dunque le regole sulle distanze tra i fabbricati e consentendo la costruzione di edifici su quelli che prima si stagliavano le cloache a cielo aperto.
Il tono espresso in questo frangente fa ipotizzare che prima di questo importante evento della storia romana fosse per l’appunto vietata la costruzione sopra le zone attraversate dalle cloache, presumibilmente per ragioni di sicurezza visto il rischio di instabilità delle strutture, e pertanto scongiurando disastrosi crolli a seguito della chiusura del condotto fognario.
La tutela della salubritas
Le cloache dunque rappresentano per i la spina dorsale che si differenziava su tre livelli.
In primis erano presenti degli scarichi minori provenienti dalle abitazioni private; canali sotterranei sotto il manto stradale che delle volte arrivavano a dei collettori pubblici, i quali conducevano i liquami direttamente nei campi ai fini di concimazione.
D’altro canto, queste condutture potevano giungere in canali più ampi, formando così il secondo livello in corrispondenza delle vie principali dei quartieri cittadini.
Infine, il terzo livello era costituito da grandi bacini di raccolta come la Cloaca Maxima, che riversavano i propri contenuti nel Tevere.
In aggiunta, le cloache erano importanti strumenti di gestione dei rifiuti urbani. Per tutti questi scopi, assumevano preminente importanza le attività della refectio (riparazione) e della purgatio (spurgo) delle fognature pubbliche, gestite dalle autorità cittadine.
La testimonianza di Ulpiano ( Tiro, 170 circa – Roma, 228) giurista e politico, dà conto di ciò: publicam curam merentur e le probabili motivazioni ricadono sul fatto che i menzionati compiti sarebbero stati molto onerosi per i privati cittadini, poiché occorreva un’ingente forza lavorativa. L’attribuzione della competenza per questa particolare funzione era condivisa probabilmente da due precise cariche pubbliche, ovvero gli edili (aediles) ed i censori (censores).
Pregiata letteratura distingue le responsabilità per entrambe le categorie, ipotizzando così che gli edili avessero le incombenze relative ad una manutenzione ordinaria delle infrastrutture fognarie, mentre i censori – eletti ogni 5 anni – intervenivano per predisporre gli interventi di salvaguardia straordinari.
Andando più avanti nel corso del tempo, appare difficoltoso delineare quale magistratura si occupasse della sorveglianza delle fogne. Un primo chiarimento però avviene sotto l’era traiana, durante la quale il controllo delle fognature passa sotto l’egida del curator riparum et alvei Tiberis.
Su questa carica c’è ampio dibattito, poiché le fonti su chi effettivamente l’abbia creata sono discordanti. Svetonio afferma che sia stato Augusto, mentre Cassio Dione e Tacito confermano Tiberio, quest’ultimo pertanto maggiormente accreditato da parte degli studiosi.
Dapprima sotto forma di collegio variamente composto, questa curatela fu poi affidata ad un’unica persona, con l’aggiunta infine della dizione et cloacarum urbis nel 101 d.C.
Ed è ancora Ulpiano a fornirci un inciso di rilevante importanza circa il valore di una corretta manutenzione dei sistemi di scarico. Più compiutamente infatti:
“Curavit autem praetor per haec interdicta, ut cloacae et purgentur et reficiantur, quorum utrumque et ad salubritatem civitatium et ad tutelam pertinet: nam et caelum pestilens et ruinas minantur immunditiae cloacarum, si non reficiantur.”
“Il pretore dunque, con questi interdetti, ebbe cura che le fognature vengano restaurate e spurgate; entrambe queste operazioni hanno rilevanza per la sanità e la sicurezza pubblica: infatti le immondizie depositate nelle fogne, se non vengano rimosse, minacciano cielo pestilente e rovine. (Ulpiano, 71 ad edictum, D. 43, 23, 1, 2)”
In sottofondo è percepibile un terribile pericolo associato alle acque reflue ed ai rifiuti presenti in esse: le pestilenze. È utile ricordare che le teorie sulle cause delle malattie erano strutturate sulla dottrina miasmatico-umorale, perfezionata anche da un contemporaneo di Ulpiano: Galeno di Pergamo (Pergamo 130 circa – ivi, probabilmente, 200 circa), medico e filosofo.
Quest’ultimo era stato testimone diretto della peste Antonina (o per l’appunto di Galeno o ancora Aureliana) che probabilmente si trattava di vaiolo e che circolava sotto Marco Aurelio. Alcune stime deducono che abbia mietuto almeno 10 milioni e mezzo di vittime, ovvero il 15% della popolazione allora presente nell’Impero.
Ettore Roesler Franz, 1880 c.a.
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